Riassunto analitico
L'obiettivo di questa tesi è quello di tentare di rispondere alla domanda "dove avviene la traduzione?", esplorando la relazione tra i concetti di "spazio" e "traduzione". Partendo dalla svolta all'interno del mondo accademico rappresentata dalla nascita dei Cultural Studies negli anni Settanta e Ottanta del Novecento, l'analisi qui presentata si distanzia da un approccio esclusivamente linguistico alla traduzione, considerando la disciplina come un'attività culturalmente e socialmente legata. La traduzione, come si può dedurre dall'etimologia del verbo stesso, dal latino "traducere", implica un movimento verso l'esterno, invitandoci dunque ad attraversare le barriere linguistiche, culturali e politiche e ad aprirci all'incontro con l'Altro. Da qui l'idea della traduzione come terra di confine, come spazio di dialogo e di relazione tra culture, lingue e persone diverse. La prospettiva adottata è quindi quella dell' "in-between" teorizzato da Homi Bhabha, o del "framezzo" di Bartoloni, inteso come spazio autonomo e creativo. Questa nuova geografia della traduzione mira ad attraversare le frontiere e le barriere elusive che impediscono ogni forma di dialogo con l'Altro. L'invito è invece quello di decentrare il proprio sguardo, e guardare la realtà attraverso gli occhi dell'Altro. La creazione di uno Spazio di Terzo di confine viene poi analizzata nel rispetto della sua natura poetica e creativa. Grazie all'incontro con l'alterità della lingua e della cultura dell'Altro è infatti possibile dare vita a nuove forme ibride, capaci di coniugare aspetti peculiari della nostra realtà in continuo movimento. In concreto, viene analizzata l'adozione di una prospettiva di frontiera all'interno del romanzo di Salman Rushdie, "I figli della mezzanotte". Lo scrittore di origini indiane, scrive infatti in un inglese "ibrido", contaminato dall'uso di lingue vernacolari, espressioni idiomatiche e parole straniere provenienti da lingue hindi, hindustani e urdu. La sua esperienza di scrittore-migrante viene così raccontata grazie a un linguaggio nuovo, ibrido e polifonico, capace di contenere in sé la sensazione di essere costantemente "tradotto" dallo scrittore, nonché il desiderio di trovare, nella vita come nella letteratura, una casa dove poter finalmente vivere, un nuovo spazio da chiamare "patria" Il caso di Salman Rushdie è poi accompagnato e messo in relazione a quello di Jhumpa Lahiri, autrice americana di origine indiane, che sceglie di scrivere in italiano. Lahiri, come Rushdie, è un "translated being", che si sente costantemente a cavallo tra due lingue. L'introduzione dell'italiano riesce a porre fine al suo conflitto interiore, e grazie alla nuova lingua Lahiri riesce a esplorare il suo orizzonte creativo e a trovare un senso di appartenenza mai provato prima. A questo proposito, la traduzione viene finalmente vista come uno strumento capace di riflettere e di rifletterci, un po' come uno specchio in cui, attraverso l'incontro con l'Altro, possiamo scoprire tratti di se stesso nuovi, prima invisibili e sconosciuti. In conclusione, il lavoro qui presentato si augura di contribuire al dibattito in corso mostrando come l'adozione di una prospettiva di confine sia in grado di rivelare il potenziale creativo della traduzione attraverso la creazione di uno spazio euristico, all'interno del quale tutti i soggetti "scasati", migranti e tutti coloro che sono alla ricerca di una terra da abitare, possano essere accolti con ospitalità e rispetto, senza timore di essere assimilati alla lingua e alla cultura ricevente. Come scriveva infatti lo scrittore rumeno Emile Cioran (anche lui migrante e traduttore), "Noi non abitiamo una nazione ma una lingua. La nostra lingua è la nostra patria".
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Abstract
The aim of this thesis is to try to answer the question: "where does the translation process take place?", exploring the relationship between the concepts of "space and translation" Starting from the birth in the academic world of the field of Cultural Studies in the 1970s and 1980s, which represented a real turning point in the history of translation, the analysis presented here, breaks with an exclusively linguistic approach to translation, considering the discipline as a culturally and socially bounded activity. Translation, as can be deducted from the etymology of the verb itself, which comes from the Latin "traducere"(in englis, "bearing across") implies a movement towards the outside, inviting us to break down linguistic, cultural and political barriers and to open up to the encounter with the Other. Hence it comes the idea of translation as a borderland, as a space of dialogue and relation between different cultures, languages and people. The perspective adopted is therefore that of the "in-between" theorized by Homi Bhabha, or the so called "framezzo" to which Bartoloni refers, understood as an autonomous and creative space. This new geography of translation aims at crossing those borders and elusive boundaries that prevent any form of dialogue with the Other. The invitation is instead that of decentralize one's own gaze, and look at reality through the eyes of the Other.
The creation of a Third Border Space is then analysed with respect to its poietic and creative nature. Thanks to the encounter with the language and culture of the Other it is in fact possible to give life to new hybrid forms, capable of combining peculiar aspects of our constantly moving reality.
In concrete terms, the adoption of a frontier perspective within Salman Rushdie's novel, "Midnight's Children", is analysed. The writer of Indian origins, writes in an "hybrid" English, contaminated by the use of vernacular languages, idiomatic expressions and foreign words coming from Hindi, Hindustani and Urdu languages. His experience as a writer-migrant is therefore narrated thanks to a new, hybrid and polyphonic language, capable of containing within itself the feeling of being constantly "translated" by the writer, as well as his desire to find, in life as in literature, a home where he can finally live, a new space willing to become a homeland capable of welcoming him with hospitality.
The case of Salman Rushdie is then accompanied and related to that of Jhumpa Lahiri, an American writer of Indian origin, who deliberately choses to write in Italian. Lahiri, like Rushdie, is a "translated being", who lives a condition of constantly feeling in-between two languages. The introduction of Italian manages to put an end to the inner conflict of the writer, who thanks to the new language is able to explore her creative horizon and find a sense of belonging she has never felt before. In this regard, translation is finally seen as a tool capable of reflecting and of displaying a self-reflection, just like a mirror in which, through the encounter with the Other, each subject can see new traits himself, previously invisible and unknown.
In conclusion, the work presented here hopes to contribute to the current debate by showing how the adoption of a border perspective is able to reveal the creative potential of translation through the creation of a heuristic space, within which all the "unhomed" subjects, migrants, and all those in search of a land to live in, can be welcomed with hospitality and respect, without fear of being assimilated to the receiving language and culture. Translation is in fact a space based on difference, on the encounter with the Other and on the reception of the Foreigner, who can receive a true linguistic citizenship. To conclude, as the Romanian writer Emile Cioran (who was a migrant and a translator too) wrote, "We do not inhabit a nation but a language [...] Our language is our homeland".
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