Riassunto analitico
Il salario minimo legale è un tema tradizionale nel dibattito e nelle politiche del lavoro di tutti i paesi sviluppati, e negli ultimi anni è tornato di relativa attualità anche in Italia, dopo anni di oblio. Il fondamento costituzionale della retribuzione minima è sancito all’art. 36, il quale riconosce al lavoratore il diritto a una retribuzione proporzionata alla qualità e quantità di lavoro, e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa. La fissazione di un salario minimo legale è proprio uno degli aspetti più controversi dal punto di vista economico, oltre che per gli effetti e conseguenze che potrebbe avere nelle scelte aziendali e sulle dinamiche sindacali, anche perché, a differenza di quanto accade in molti Paesi, si perderebbe l'opportunità di differenziare il salario per particolari gruppi di lavoratori, come i giovani senza esperienza, i lavoratori in formazione o assunti con contratto di apprendistato, gli appartenenti a particolari settori merceologici o occupazionali o particolarmente qualificati. L’abbandono in Italia della prospettiva dell’introduzione di un salario minimo legale si collega alle scelte operate dal nostro ordinamento circa l’assetto giuridico e strutturale delle relazioni sindacali e della contrattazione collettiva. Già ai tempi del dibattito costituzionale, Di Vittorio prefigurava un ordinamento sindacale costituzionalmente riconosciuto in cui la contrattazione collettiva di categoria avesse validità erga omnes e che fosse estesa a tutti i lavoratori dipendenti, così da garantire a tutti tutele fondamentali sia economiche che retributive. In quest’ottica, la garanzia dei minimi salariali non avrebbe dovuto richiedere interventi legislativi, ma si poteva attuare con il pieno sviluppo dell’art. 39. Come vedremo tali ipotesi non furono mai attuate e nel nostro ordinamento viene lasciata ampia discrezionalità alla contrattazione collettiva per quanto riguarda la fissazione del minimo retributivo. L’obiettivo di questo elaborato è quello di fornire un’analisi sull’art. 36 Cost, il quale sancisce il principio di giusta retribuzione, che si pone alla base di tutta la trattazione, dall’esperienza del dibattito costituzionale fino ai giorni nostri, con particolare riferimento all’utilizzo da parte della giurisprudenza di codesto principio come standard per garantire ai lavoratori una retribuzione sufficiente e proporzionata. Il principio della giusta retribuzione non è un mero corrispettivo di lavoro ma corrisponde ad un compenso del lavoro prestato che si deve caratterizzare di proporzionalità in base alla qualità e quantità del lavoro, è il mezzo per sopperire alle necessità vitali dei lavoratori e dei suoi familiari, che deve essere sufficiente ad assicurare a costoro un’esistenza libera e dignitosa . Il rimedio posto in essere dai giudici ha ritardato per un lungo periodo la necessità di un intervento legislativo sui minimi salariali, infatti nel nostro ordinamento non è ancora presente una legge che stabilisca un salario minimo orario. Negli ultimi anni, il tema è tornato nel dibattito politico, anche a fronte della delega, poi disdetta, del Jobs Act e attraverso le successive proposte di legge del Governo Movimento 5 Stelle - Partito Democratico, ma anche a causa dell’impoverimento di un numero sempre maggiore di lavoratori e l’ampliamento delle diseguaglianze sociali causati dalla profonda crisi economica. Non è solo parte dell’Italia che porta in luce codesto problema, è anche l’Unione Europea la quale prevede che in tutti gli Stati membri sia presente un salario minimo, la scelta di affidare il compito della determinazione del livello alla legge o alla contrattazione collettiva è coerente con le tradizioni industriali dei singoli Stati, richiamando solo il diritto ad una retribuzione equa e sufficiente.
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