Riassunto analitico
La nozione di discriminazione è oggi inevitabilmente centrale nel diritto interno e nel diritto europeo. Nel dibattito filosofico-giuridico la discriminazione è considerata quale violazione o indebita compressione del principio di eguaglianza costituzionalmente sancito . A livello puramente teorico, una discriminazione intesa come violazione del principio di eguaglianza implica la gerarchizzazione (a danno) dei soggetti e dei gruppi. Sulla base di questo presupposto, il diritto antidiscriminatorio mira alla salvaguardia della dignità umana e del principio dell’autodeterminazione, perseguendo contestualmente l’ambizioso obiettivo del raggiungimento della parità (di trattamento) tra persone e gruppi di persone. Il nostro ordinamento contempla numerose ed eterogenee ipotesi discriminatorie: fattispecie fondate su una nozione soggettiva di discriminazione, ossia fattispecie discriminatorie incentrate sull’animus discriminandi, con riferimento a volontà e coscienza di un soggetto di tenere un comportamento pregiudizievole in ragione di uno o più fattori discriminatori, e quelle fondate su una nozione oggettiva, svincolate dall’animus discriminandi di chi compie un atto discriminatorio. La discriminazione soggettiva è intesa quale trattamento svantaggioso e pregiudizievole posto in essere, volontariamente, verso uno o più soggetti in ragione di fattori di rischio tassativi e in assenza delle c.d. esimenti. Dunque, ai fini della configurazione delle ipotesi di licenziamento basate sulla nozione soggettiva di discriminazione è sufficiente che sia provata la presenza di tale animus (ossia la coscienza e volontà da parte del soggetto agente di arrecare un pregiudizio al lavoratore in ragione di uno o più fattori discriminatori), mentre non rileva la sua esclusività. La definizione di discriminazione oggettiva è stata al centro di numerosi dibattiti normativi, in virtù della presenza di un ampio novero di norme che disciplinano la materia. In ciascuna delle ipotesi in esame sono emersi però elementi comuni, che hanno condotto alla definizione omogenea e oggettiva di discriminazione intesa come qualunque trattamento datoriale differenziale che, in assenza delle c.d. esimenti, e indipendentemente dall’animus discriminandi del soggetto agente, sia in grado di produrre un effetto sfavorevole e pregiudizievole verso uno o più lavoratori individuati in base a fattori di rischio tassativi. Nel diritto del lavoro, la dottrina maggioritaria da vari anni porta avanti la propria tesi, ritenendo che l’art. 15 St. lav. fondi un concetto oggettivo di discriminazione. Tuttavia, la giurisprudenza maggioritaria è stata sempre parecchio restia all’accoglimento di suddetta impostazione. Molte pronunce hanno infatti continuato a ricostruire le ragioni discriminatorie alla base di un licenziamento come motivi soggettivi del datore di lavoro. Solo recentemente, alcune pronunce di merito , allineandosi alla posizione prevalente in dottrina, hanno iniziato ad affermare la rilevanza su un piano puramente oggettivo delle ragioni discriminatorie che viziano il licenziamento , riconducendo la nozione soggettiva di discriminazione all’interno di quella oggettiva attraverso una interpretazione sistematico-evolutiva . Parallelamente, troviamo l’ulteriore distinzione tra discriminazione c.d. diretta e indiretta. Questa distinzione concerne, infatti, il rapporto tra l’atto, i fattori discriminatori e il modo in cui quest’ultimi influiscono sui comportamenti tenuti. Con discriminazione diretta ci riferiamo a quelle ipotesi in cui un soggetto con una particolare caratteristica protetta dall’ordinamento viene trattato meno favorevolmente rispetto ad altri che sono privi di tale caratteristica. Al contrario, si manifestano discriminazioni indirette quando determinati individui, accomunati da determinate caratteristiche, subiscano effetti svantaggiosi a causa di una disposizione o di un particolare
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