Riassunto analitico
Il patto d'opzione, introdotto all'interno del nostro ordinamento per la prima volta dal codice civile del 1942 all'art. 1331, è stato oggetto di ampi dibattiti, sia in dottrina che in giurisprudenza, specialmente in ordine alla sua natura giuridica e alla sua ratio giustificativa, in particolare in relazione all'istituto della proposta irrevocabile ex art. 1329 c.c. Oggi la dottrina e le Corti sono unanimi nel ritenere che l'opzione costituisca un vero e proprio contratto, tramite il quale le parti si accordano in merito all'irretrattabilità, per un determinato periodo di tempo, della proposta di una di esse di concludere un ulteriore contratto, in modo tale che la controparte potrà perfezionare, con la propria semplice accettazione, questo eventuale futuro contratto. L'art. 1331 c.c. prevede dunque uno strumento alternativo agli schemi tradizionali di conclusione del contratto, previsti agli artt. 1326 e 1327 c.c., il quale si inserisce nel c.d. processo di "formazione progressiva del contratto". Il contratto d'opzione è stato definito da autorevole dottrina uno "strumento negoziale neutro", in quanto particolarmente versatile e funzionale alla conclusione di un qualsiasi tipo contrattuale. Uno degli ambiti in cui il modello dell'opzione ha trovato terreno più fertile è, senza dubbio, quello delle operazioni commerciali e finanziarie, specialmente nei contratti di compravendita di partecipazioni societarie. Nella prassi di questo settore è particolarmente diffuso l'utilizzo di clausole atipiche ( definite anche "aliene" ), nate in ordinamenti stranieri, in particolare in quelli di diritto angloamericano, che, grazie alla loro capacità di soddisfare le esigenze e gli interessi delle parti contrattuali, hanno trovato un ampio utilizzo anche all'interno dell'ordinamento italiano: queste fattispecie contrattuali, nello specifico le c.d. clausole di put e di call ( a cui si affiancano spesso le c.d. clausole di drag-along e di tag-along ), che si trovano sovente nella negoziazione di accordi parasociali, sono inquadrabili, nel diritto italiano, all'interno dello schema previsto dall'art. 1331 c.c. ( si parla, infatti, di "opzioni di vendita" e "di acquisto" ). Il successo che queste clausole, nate e pensate all'interno di un ordinamento straniero, hanno avuto nella prassi ha posto agli interpreti del diritto il problema della loro legittimità e conformità coi principi inderogabili e con le norme imperative del diritto societario italiano, nella cui sfera, di fatto, tali fattispecie contrattuali si trovano ad operare. Il problema principale, sul quale dottrina e giurisprudenza non hanno ancora oggi raggiunto una soluzione unanime, attiene alla compatibilità delle opzioni di vendita di partecipazioni azionarie, specialmente nel caso in cui non siano previsti meccanismi di aggiustamento del prezzo della compravendita in relazione al valore effettivo della partecipazione al momento del trasferimento, rispetto alla regola fondamentale dell'ordinamento societario sancita dall'art. 2265 c.c., la quale, a tutela del principio per cui ogni socio deve necessariamente partecipare al rischio di impresa, vieta ogni patto ( c.d. "leonino" ) che, direttamente o indirettamente abbia come scopo quello di escludere totalmente uno o più soci dalla partecipazione agli utili o alle perdite. L' elaborato si propone, dopo aver ricostruito la disciplina del patto d'opzione ex art. 1331 c.c., di individuare, tramite lo studio dei casi concretamente presentatisi, delle teorie elaborate dalla dottrina, nonché dei principi sanciti dalle Corti di merito e di legittimità, la ratio e la portata del divieto di patto leonino, con particolare riferimento alla sua applicabilità alle società di capitali e ai patti parasociali, al fine di determinare quali siano i criteri alla luce dei quali tali clausole contrattuali possano essere considerate legittime all'interno dell'ordinamento italiano.
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