Riassunto analitico
Il morbo di Parkinson colpisce circa il 3% della popolazione mondiale ed è la seconda malattia neurodegenerativa più diffusa. Questa patologia è caratterizzata dalla degenerazione dei neuroni dopaminergici della substantia nigra pars compacta e dalla presenza di inclusioni neuronali eosinofile, denominate corpi di Lewy, contenenti al loro interno aggregati tossici della proteina α-sinucleina. La conseguenza della morte neuronale è la riduzione dei livelli del neurotrasmettitore dopamina che contribuisce a determinare l’insorgenza dei sintomi motori e non motori caratteristici della patologia. L’attuale approccio farmacologico alla terapia del morbo di Parkinson è perlopiù volto ad aumentare i livelli dopamina per alleviare i sintomi associati alla patologia. Il minerale ferro è un micronutriente indispensabile per il corretto funzionamento dell’organismo. Tuttavia, un eccesso di ferro libero può scatenare una serie di effetti dannosi per l’organismo. Nei pazienti affetti dal morbo di Parkinson è stato evidenziato un accumulo di questo metallo pesante nella substantia nigra pars compacta. Il ferro libero è in grado di scatenare la produzione di radicali liberi dell’ossigeno (ROS). La produzione di un enorme quantità di queste specie reattive dell’ossigeno causa una disfunzione mitocondriale e l’attivazione di morte neuronale mediante ferroptosi. Inoltre, la presenza di ioni ferrosi prende parte ai processi di formazione degli aggregati tossici della proteina α-sinucleina e alla reazione di autossidazione del neurotrasmettitore dopamina. Entrambi questi meccanismi conducono il neurone a degenerazione. Tutti questi meccanismi molecolari e cellulari indotti da un’eccessiva quantità di ferro nei neuroni della substantia nigra pars compacta potrebbero essere una delle cause determinanti lo sviluppo della malattia parkinsoniana. Sulla base di questi dati, i ricercatori hanno identificato una possibile nuova strategia terapeutica per il morbo basata sull’impego di molecole in grado di chelare il metallo pesante accumulato nella substantia nigra. Diverse sono state le molecole studiate, tra le quali deferoxamina, cliochinolo, epigallocatechina-3-gallato e acido fitico. Il farmaco che ad oggi sembra essere il candidato migliore per la terapia antiparkinsoniana è deferiprone. Risultati preliminari dimostrano che è capace di diminuire l’accumulo di ferro nella substantia nigra pars compacta e di conseguenza inibire gli effetti dannosi ad esso associati. Deferiprone è agli studi clinici di fase II. Si spera che i risultati dello studio, che saranno disponibili alla fine di questo 2020, siano incoraggianti e che in futuro possano portare all’introduzione in clinica di nuovi farmaci capaci di rallentare il progredire della malattia parkinsoniana e di migliorarne i sintomi attraverso la chelazione del minerale ferro. La comprensione del ruolo del ferro nella malattia parkinsoniana potrebbe aprire la strada a nuove terapie farmacologiche.
|