Riassunto analitico
«For the law, neuroscience changes nothing and everything», scrivevano Greene e Cohen nel 2004. In questa semplice provocazione è espressa tutta la complessità del dialogo tra le moderne neuroscienze cognitive e l’antica architettura concettuale del sapere giuridico. Il termine “neuroscienze giuridiche” racchiude in sé le più eterogenee ricerche neuroscientifiche dai risvolti applicativi, diretti e non, nella sfera giuridica, con l’intento di analizzare e approfondire i diversi momenti e luoghi dell’interazione tra due mondi apparentemente estranei, ma accomunati da una medesima volontà di comprensione dell’uomo. Per ragioni di chiarezza espositiva, questo dialogo si articola in tre fasi, una, a ben vedere, consequenziale all’altra, e sfocia in tre branche epistemologiche diverse, rispettivamente scientifico-crimonologica (“neuroscienze criminologiche”), filosofica (“neuroscienze normative”) e giuridica (“neuroscienze forensi”). L’impetuoso sviluppo delle “scienze del cervello” e le acquisizioni nel campo della genetica, grazie all’impiego di tecniche e metodiche sempre più affinate e precise, hanno in primis soddisfatto esigenze medico-diagnostiche, rivelando importanti aspetti strutturali e funzionali sottesi all’agire umano e capaci, dunque, di fornire ragionevoli spiegazioni anche al fenomeno criminoso. Parallelamente ad un approccio alla criminogenesi di tipo socio-ambientale, psicologico e psicopatologico, quello biologico pare rievocare lontane teorie lombrosiane, che miravano a identificare i tratti somatici della violenza. Le neuroscienze criminologiche, lungi dall’assegnare qualsivoglia validità scientifica alle posizioni di Lombroso, riconoscono, tuttavia, l’effettiva correlazione tra condizioni neuronali e genetiche, congenite o sorte in seguito, e una tendenza all’aggressività, un’incapacità a controllare gli impulsi o a distinguere lucidamente il “bene” dal “male”, il “giusto” dallo “sbagliato”; correlazione che, è bene specificare, non sfocia mai in un rapporto causa-effetto, in un “determinismo biologico”, ma che crea innegabilmente una condizione di vulnerabilità, di “permeabilità” del soggetto a fattori esterni, capaci di manifestarsi in un agire criminoso. Si tratta ancora di un’indagine puramente naturalistica, ma che rende necessario un cambio di prospettiva. Infatti, davanti a queste verità scientifiche, i pilastri su cui è costruito il diritto penale cominciano inevitabilmente a tremare. Ha ancora senso, si domanda la dottrina, parlare di “coscienza”, “volontà” e “libero arbitrio”, quegli istituti metafisici che, come Atlante, reggono la grande Volta della responsabilità penale? Non sarebbe più sensato abbandonare e rifondare i concetti e i modelli cardine del diritto contemporaneo, così da renderli più coerenti con una realtà meccanicista e regolata da leggi fisiche? Le neuroscienze normative, dunque, traspongono ad un livello metagiuridico il frutto delle indagini delle neuroscienze criminologiche, tentando di fornire una risposta ad ogni interrogativo. Si tratta, da ultimo, di comprendere quale possa essere il concreto contributo probatorio che le neuroscienze, con la loro innegabile forza persuasiva, possono offrire per realizzare una “giustizia” effettiva. Le neuroscienze forensi, sulla base di quella che è l’attuale esperienza giurisprudenziale italiana e d’oltreoceano, si occupano di regolamentare l’ingresso delle prove neuroscientifiche nelle aule di tribunale, di fissare precisi criteri di ammissibilità e di valutazione per sopperire alle carenze tecnico-specialistiche del giudice. In conclusione, l’obiettivo in questa sede sarà quello di riportare i punti salienti di un tumultuoso ed articolato dibattito, destinato certamente ad evolversi esponenzialmente negli anni a venire.
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