Riassunto analitico
Il titolo “la parabola del tossicodipendente” anticipa e suggerisce i due obiettivi che si è posto il presente elaborato di ricerca. Il termine “parabola”, infatti, da un lato identifica una figura geometrica composta da un insieme di punti che, uniti tra loro, creano una traiettoria; mentre dall’altro, evoca quel racconto semplicistico della realtà attraverso il quale – sia la letteratura greca che il cristianesimo – impartivano una morale agli auditori. E così, specularmente, la parabola qui rappresentata indica quell’itinerario di vita che ha portato un soggetto ad essere considerato un deviante, vista la sua assunzione di sostanze stupefacenti; un delinquente, in forza della connessione tra il Disturbo da Uso di sostanze e la commissione di alcune tipologie di reati; ed infine un detenuto. Nel farlo, il secondo obiettivo consisteva nell’evitare di cadere in facili semplicismi, andando a raccontare una traiettoria unica, come se, dalla prima assunzione in poi, la strada fosse già, inevitabilmente, tracciata. Inizialmente si è posta l’attenzione sui fattori di rischio che incidono maggiormente sull'uso compulsivo di sostanze, adottando il modello tripartito: sostanza, set e setting. La seconda tappa tratta del passaggio dalla devianza alla delinquenza, affrontando il tema – campo di fervidi scontri dottrinali - dell’imputabilità dell’autore di reato tossicodipendente, nonché delle problematiche vi connesse. Il rapporto tra tossicodipendenza e crimine è stato analizzato suddividendo: i reati economico-compulsivi, i reati sistemici, i reati psicofarmacologici. A questi vanno aggiunti i reati, contenuti nel d.P.R. n. 309/1990, che costituiscono è una delle principali cause dell’alto numero di tossicodipendenti in carcere. Il detenuto con Disturbi da Uso di Sostanze, oltre a subìre le pratiche di spoliazione del sé e di prigionizzazione, è soggetto alla stigmatizzazione da parte degli altri prigionieri. Ai loro occhi egli appare come incapace a “farsi la galera” e a rispettare quel codice del detenuto, tanto invisibile quanto vincolante, a causa della dipendenza. Così, per evitare “problemi” con gli operatori penitenziari e gli altri prigionieri, lo marginalizzano. Dopo aver attraversato i passaggi storici che hanno condotto al pieno riconoscimento del diritto alla salute per i detenuti, ci si è concentrati sulle influenze tra la cultura carceraria e quella medica. La necessaria cooperazione tra i due ambiti porta a continue negoziazioni in cui da un lato, il personale medico si fa garante del diritto alla salute dei detenuti ma, dall’altro, sentendosi “ospite” di un contesto permeato da sfiducia e sospetto, finisce per osservare i suoi pazienti attraverso la lente securitaria tipica dell’ambiente penitenziario. Le subculture presenti nel mondo carcerario finiscono per mescolarsi inevitabilmente; la visione di ogni attore influisce quella degli altri. Dinanzi alla difficoltà - o meglio, all’incompatibilità - del diritto alla salute con lo stato detentivo del tossicodipendente, il legislatore ha previsto percorsi ad hoc, come le misure alternative alla detenzione specificatamente a loro destinate e la custodia attenuata. Infine, la necessità di abbandonare quella stigmatizzazione che vede il tossicodipendente solo come un drogato si è palesata dinanzi alla “stupefacente” capacità di gestire la dipendenza durante il lockdown. Qui, sono state guardate con occhi nuovi le correnti promotrici della liberalizzazione e della legalizzazione, andando a riconoscere il valore delle politiche di riduzione del danno poste in campo già da tempo.
Insomma, ad ogni punto della parabola, la traiettoria potrebbe – e può - diramarsi in direzioni diverse; lo storico racconto semplicistico del tossicodipendente, qui, è inevitabilmente posto in crisi.
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