Riassunto analitico
Con l’emanazione della Costituzione veniva cristallizzato nel nostro ordinamento il principio, e la rispettiva inviolabilità e sacralità, del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento (art. 24 comma 2 Cost.). Affinché questo diritto possa (ora come allora) essere effettivamente tutelato, - e conseguentemente esercitato - la persona sottoposta alle indagini dovrebbe avere la possibilità, non soltanto di preparare una propria strategia difensiva da adottare durante lo svolgimento di atti che presuppongono un contatto tra accusa e difesa, ma, altresì, quella di compiere investigazioni parallele a quelle espletate dal pubblico ministero. Tuttavia, le riferite facoltà, non possono prescindere da una previa, concreta ed effettiva conoscenza da parte dell’indagato, nel più breve tempo possibile, dell’esistenza di un procedimento penale a proprio carico e dell’addebito contestato anche solo in via provvisoria. Infatti, una qualsiasi persona sottoposta a un procedimento penale, per avere la possibilità di difendersi provando, deve necessariamente: conoscere la natura dell’accusa al fine di potersi difendere; conoscere i motivi della stessa, per comprenderne la portata e poter incidere, in qualche modo, su questa. Gradualmente e gradatamente la difesa si trasforma: da concetto che individua la funzione dialetticamente contrapposta all'accusa, avente, quindi, carattere accessorio rispetto a quest’ultima, a vera e propria attività autonoma rispetto a quella dell’organo inquirente, sia dal punto di vista operativo che da quello funzionale. In questo modo nasce l’esigenza di dover garantire un contraddittorio (anche e soprattutto) ante imputazione, attraverso l’inserimento di atti e strumenti in grado di permettere all'indagato di essere messo a conoscenza dell’accusa che, per quanto embrionale, si sta formando progressivamente nel corso delle indagini preliminari. Invero, tale contraddittorio, dovrebbe non soltanto permettere alla difesa di incidere sulla qualificazione del fatto che sarà - eventualmente - oggetto dell’imputazione vera e propria, ma anche direttamente sull’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero. Tuttavia, la necessità di garantire una tempestiva conoscenza dell’accusa è, inevitabilmente, osteggiata da un altro, e certamente non meno rilevante, interesse in gioco: la segretezza degli atti di indagine (art. 329 c.p.p.), quale presupposto funzionale e imprescindibile per la loro completezza ed efficienza. Invero, benché il principio di conoscibilità dell’accusa sia stato assurto al rango di principio costituzionale (art. 111 comma 3 Cost.), quale diritto che, sulle linee da lungo tempo tracciate dall’ordinamento internazionale, concorre a delineare la fisionomia di un giusto processo, il sistema codicistico non sembra, ancora oggi, prevedere istituti e strumenti realmente idonei a rendere certa e indiscriminata, in capo all'indagato, la tempestiva consapevolezza dell’avvio di indagini nei propri confronti e a porre lo stesso nella possibilità di operare concretamente ed effettivamente le scelte strategiche difensive più adeguate alla propria situazione. Un ultimo punto realmente controverso verte sulla scelta che è stata fatta, ossia quella di continuare ad affidare l’ago della bilancia a una delle parti - anche se di parti non si potrebbe ancora parlare - quando uno degli obiettivi primari della riforma doveva essere proprio quello di raggiungere una parità delle parti attraverso l’attribuzione di eguali strumenti. Appare ragionevole, infatti, ricordare che, come sostiene autorevole dottrina, il migliore dei pubblici ministeri non può, e forse, non dovrebbe nemmeno, sostituire l’ultimo dei difensori.
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