Riassunto analitico
Quando il legislatore italiano ha introdotto nel 2001 il decreto legislativo 231 ha previsto per la prima volta una forma di responsabilità amministrativa da reato degli enti. All’interno della normativa, in linea con le esigenze politico-sociali che si sono succedute negli anni, sono stati introdotti di volta in volta nuovi reati-presupposto che, ove commessi da soggetti apicali o subordinati e nell’interesse o vantaggio della società, comportano anche per essa una responsabilità. Tra questi, tra il 2007 ed il 2008 sono stati previsti all’art. 25-septies del d.lgs. 231/2001 i reati di omicidio e lesioni personali colposi commessi in violazione delle norme in materia di sicurezza e salute sul lavoro. Mentre il primo capitolo della tesi mostra i principali caratteri del modello di responsabilità degli enti e del testo unico in materia di sicurezza e salute sul lavoro, il secondo capitolo comincia a delineare il quadro problematico che si rappresenta laddove si debba imputare alle persone giuridiche i reati colposi di evento di cui all’art. 25-septies, poiché in evidente contrasto con i criteri d’imputazione dell’interesse e del vantaggio previsti dalla normativa 231. Infatti, appare subito evidente come non sia possibile pensare che l’ente possa ricavare un vantaggio od avere un interesse rispetto ad eventi quali la morte o l’infortunio di un proprio lavoratore, da cui a contrario scaturiscono il rischio di subire un processo penale e di dover risarcire il danno provocato. Data una prima panoramica di tale antinomia, nei capitoli successivi si passano in rassegna le diverse soluzioni che dottrina e giurisprudenza hanno tentato di elaborare per garantire una risposta punitiva anche nei confronti degli enti, qualora i reati colposi di evento in esame siano commessi da chi svolge la propria attività al loro interno. Dalle diverse possibili interpretazioni elaborate per i concetti di interesse e vantaggio, di natura soggettiva, oggettiva o mista, si procede ad illustrare le possibili relazioni che possono sussistere tra di essi e come possano trovare applicazione anche qualora si proceda per fattispecie colpose. In particolare si pone l’attenzione sull’interpretazione ortopedica operata dalla giurisprudenza, che nella scelta fra disapplicare rispettivamente l’art. 25-septies o l’art.5 concernente i criteri d’imputazione oggettivi in esame, ha preferito salvaguardare la persecuzione di tali reati ancorando l’accertamento della sussistenza di un interesse o di un vantaggio per l’ente non al reato nel suo complesso, bensì alla condotta colposa commessa dal soggetto agente. Nel terzo capitolo si procede allora ad una disamina delle principali pronunce che fino ad oggi si sono occupate della questione, ponendo soprattutto l’attenzione sulla complessità e disomogeneità delle motivazioni sostenute di volta in volta a seconda del caso concreto. Stante il quadro che così si delinea, vengono in considerazione le diverse proposte de lege ferenda finalizzate ad una rielaborazione della normativa 231/2001 che riesca a superare l’empasse rappresentato dalla difficile convivenza tra i criteri oggettivi d’imputazione e le fattispecie colpose. In tale prospettiva, attraverso un approccio comparatistico, si passa ad una rapida disamina anche dei modelli di responsabilità degli enti predisposti in altri ordinamenti, ed in particolare nel sistema inglese ed in quello americano, allo scopo di valutare come altri paesi abbiano risolto la medesima questione. In conclusione, ponendo in luce i principali punti critici del modello vigente nell’ordinamento italiano rispetto alle fattispecie colpose di evento in materia di sicurezza, appare evidente come la questione sia destinata a rimanere aperta fino a che non sopraggiunga un intervento di riforma del legislatore che chiarisca e ponga punti fermi in relazione al rapporto che debba sussistere fra gli artt. 5 e 25-septies del d.lgs. 231/2001.
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