Riassunto analitico
Il lavoro di tesi si occupa del problema della compatibilità dei criteri oggettivi di ascrizione della responsabilità da reato degli enti collettivi con i delitti colposi d’evento. Fin della sua introduzione, la normativa disegnata dal d.lgs. 231/2001 si è trovata a dover fare i conti con un vasto panorama di opinioni caratterizzato da prospettive ed atteggiamenti differenti, riscontrabili sia nel mondo delle imprese che in quello giuridico, entrambi chiamati all’assimilazione di un testo di legge tanto innovativo quanto ricco di problematicità e dissonanze. Un testo in cui i criteri di imputazione rivestono una funzione fondamentale, a cominciare da quelli “oggettivi” i quali, come si evince dalla lettura dell’articolo 5, richiedono, per l’insorgere della responsabilità in capo alla societas, che l’illecito penale sia stato commesso da quei soggetti che siano titolari di un rapporto di tipo qualificato con l’ente nel suo interesse o a suo vantaggio. A complicare uno stato di cose già particolarmente complesso è stato un intervento normativo da tempo atteso: quell’intervento con cui, con la legge 3 agosto 2007 n. 123, art. 9, il legislatore italiano, nell’impellente intento di arginare un’ininterrotta ed inaccettabile sequenza di morti bianche, così come quella degli infortuni non mortali, introduceva, all’interno della normativa 231, l’art. 25-septies che estendeva la responsabilità amministrativa degli enti ai reati di omicidio colposo di cui all’art. 589 c.p. e di lesioni colpose gravi o gravissime ex art. 590 comma 3 c.p., conseguenti alla violazione delle norme a tutela della salute e della sicurezza sul lavoro. Infatti, benché le potenzialità applicative dell’art. 25-septies si presentassero come estremamente rilevanti, esse si sarebbero trovate a confrontarsi con delle importanti criticità rimaste in ombra fino a quel momento. Criticità, peraltro, in parte dovute al ritardo dell’intervento normativo stesso, quale conseguenza di una scelta legislativa “minimalista” nella selezione iniziale dei reati presupposto che aveva finito per comportare un vizio d’origine nella parte generale del decreto, concepita e modellata in concreto per la criminalità del profitto, ossia per una platea di reati squisitamente dolosi. Così, già all’indomani dell’ingresso dell’art. 25-septies nel corpus della normativa 231, l’attenzione degli interpreti non poteva che riversarsi proprio sul problema dell’adattabilità dei criteri oggettivi di imputazione della responsabilità agli enti collettivi al modello di illecito inquadrabile nel paradigma tipico dei reati colposi di evento, quale è quello che identifica i delitti richiamati dalla disciplina di nuovo conio in materia di sicurezza sul lavoro. Il nodo della compatibilità logico-strutturale dell’art. 5 rispetto a tali fattispecie colpose risultava infatti ulteriormente accresciuto proprio dalla particolare struttura delle stesse, dunque dalla considerazione in termini unitari del fatto di reato costituito tanto dalla condotta colposa quanto dall’evento lesivo. Ed invero, dimostrare che la morte colposa o la lesione colposa aggravata sia stata realizzata nell’interesse o a vantaggio dell’ente così come richiesto dal tenore letterale della norma risulta assai arduo. Cionondimeno, al fine di scongiurare l’eventualità che la predetta questione potesse portare ad una disapplicazione della disciplina della responsabilità amministrativa degli enti in relazione ad un campo chiave quale quello della sicurezza sul lavoro, dottrina e giurisprudenza si sono prodigate nella ricerca di soluzioni ermeneutiche volte a conciliare i criteri dell’interesse e del vantaggio con la struttura delle nuove fattispecie di reato introdotte.
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