Riassunto analitico
La finalità dell’azione esecutiva è quella di realizzare coattivamente quei diritti che sono stati accertati - con apposito provvedimento - dall’organo giudicante, oppure quei diritti che traggono origine da titoli esecutivi stragiudiziali - quali, ad esempio cambiali, assegni o scritture private autenticate - a cui il debitore non ha volontariamente adempiuto. Il fondamento della disciplina della vendita forzata immobiliare lo possiamo rinvenire da due articoli del codice civile, in particolare dall’art. 2740 e dall’art. 2910. L’esecuzione forzata si articola in due configurazioni: l’una in forma generica - anche detta espropriazione forzata - e l’altra in forma specifica. La prima consiste nella trasformazione coattiva in denaro dei beni assoggettati al vincolo del pignoramento. Può essere mobiliare, immobiliare oppure presso terzi. La seconda invece è volta all’ottenimento, in favore del creditore, del risultato di cui ha diritto. Si divide in obblighi di dare - che possono consistere in una consegna di cose o in un rilascio di immobili -, oppure di fare o di non fare. L’espropriazione forzata immobiliare si distingue da tutte le altre configurazioni perché ha ad oggetto i beni immobili del debitore, nonché tutti gli altri diritti reali immobiliari a questi appartenenti suscettibili di scambio, i quali vengono trasformati coattivamente in una somma di denaro per soddisfare e realizzare le pretese dei creditori. Lo strumento dell’espropriazione immobiliare trova un limite nel caso in cui il patrimonio del debitore sia incapiente. Infatti non sempre il debitore è in possesso di sufficienti beni per poter soddisfare tutte le pretese dei suoi creditori, e in tale situazione l’esecuzione forzata non riuscirà a raggiungere i suoi obiettivi. In caso di incapienza, il nostro codice si occupa di salvaguardare l’obiettivo della parità sostanziale, che si fonda sul principio della par condicio creditorum - cui fanno eccezione solamente le cause di prelazione - e di premiare l’iniziativa processuale dei singoli creditori che si siano muniti di un titolo esecutivo e abbiano agito con tempestività. Il processo di esecuzione infatti può essere avviato solamente da quel creditore che è in possesso di un titolo esecutivo, ossia un documento che accerta il possesso di un diritto certo, liquido ed esigibile ex art. 474 c.p.c. Questo aspetto fa emergere un’importante differenza con il processo di cognizione che invece può essere iniziato da chiunque ne abbia interesse. Inoltre, non solo il titolo esecutivo dovrà essere valido, efficace e preesistente all’intrapresa azione esecutiva, ma la sua validità ed efficacia dovrà permanere per tutto il suo corso, quindi fino al termine del procedimento esecutivo. In difetto, il giudice dichiarerà l’improcedibilità dell’esecuzione stessa. Per avviare un processo esecutivo non è però sufficiente il possesso di tale titolo esecutivo, perché occorre notificarlo in forma esecutiva unitamente all’atto di precetto ex art. 479 c.p.c. Quest’ultimo atto - il cui contenuto è fissato dall’art. 480 c.p.c. - altro non è che un’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal titolo esecutivo, entro un termine che non può essere inferiore a dieci giorni, e avvertendo il debitore che in caso di inadempimento il creditore procederà all’esecuzione forzata. A seguito di queste notifiche il creditore procedente potrà iniziare l’espropriazione forzata, ma non prima che sia decorso il termine indicato nel precetto. Solo in caso di pericolo nel ritardo il giudice può autorizzare, con decreto, l’esecuzione immediata ai sensi dell’art. 482 c.p.c.
|