Riassunto analitico
La struttura del processo penale viene tradizionalmente ispirata a due archetipi fondamentali: il sistema inquisitorio e il sistema accusatorio. Differenza significativa tra i due modelli è rappresentata dai poteri attribuiti al giudice, non soltanto in ragione della sua posizione rispetto alle parti, ma anche rispetto alla possibilità di avere iniziativa probatoria. Il modello accusatorio si basa sul principio dialettico, in cui è previsto uno scontro tra soggetti antagonisti ed il giudice è equidistante da essi, senza possibilità di potere probatorio ex officio. Il modello inquisitorio, invece, pone le basi sul principio di autorità. Questa tipologia fu di supporto all’ideologia fascista, che nel 1930 portò all’approvazione dei due codici penalistici. In quegli anni il processo divenne uno strumento per i fini repressivi dello stato, il giudice, che assumeva la figura di giudice-istruttore, aveva pieni poteri in ordine all’iniziativa del processo e alla formazione delle prove, raccogliendo queste ultime in piena libertà, indipendentemente dalle richieste delle parti. Egli assolveva il compito di attuare la legge e, nel contempo, anche il compito di affermare gli interessi collettivi sovraordinati ai diritti soggettivi. Con l’avvento della Costituzione nel 1948 entrarono nel nostro ordinamento principi liberali e democratici che dovevano essere mutuati all’interno del codice di procedura penale; il percorso di ricodificazione terminò nel 1988 con l’approvazione di un codice di stampo accusatorio, ma con tratti autonomi, che lo rendono un sistema processuale misto (cd. sistema accusatorio all’europea). A differenziarlo è la possibilità per il giudice, in alcuni casi residuali e stabiliti dalla legge, di avere iniziativa probatoria e l'obbligatorietà dell'azione penale, ex art. 112 Cost. A rendere quest'ultima effettiva è il controllo del giudice, non solo su i presupposti dell’azione penale, ma anche sui presupposti di una eventuale inazione, ex art. 409 c.p.p.: può accadere, infatti, che il giudice non accolga la richiesta di archiviazione e indichi al pubblico ministero ulteriori indagini. Questa disposizione ha portato ad un acceso dibattito sui poteri del giudice in sede di archiviazione e sul grado di specificità che queste ulteriori indagini devono avere, perché un’eccessiva invasione nell’ambito proprio del pubblico ministero porterebbe all’enorme differenza tra una situazione di controllo e una situazione di intervento in senso stretto. Per quanto riguarda, invece il ruolo del giudice in ambito probatorio, egli mantiene, ex art. 190 comma 2 c.p.p., nelle singole fasi processuali, la possibilità di introdurre prove ex officio: nell’udienza preliminare, con la l. 479 del 1999 (legge Carotti) è stato inserito l’art. 421 bis e riformato 422 c.p.p., nel dibattimento con gli artt. 506 e 507 c.p.p. e nel giudizio di appello con l’art. 603 c.p.p. In tutte le disposizioni qui elencate, però, il giudice può esercitare poteri probatori solo in via residuale; essi sarebbero temibili e di ostacolo ad un sistema accusatorio soltanto qualora soverchiassero l’iniziativa delle parti, che invece mantengono un potere dispositivo prevalente e generalizzato: dipende da loro l’iniziativa motu proprio del giudice, quando abbiano lavorato impeccabilmente egli rimane esautorato da ogni iniziativa istruttoria ex officio.
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