Riassunto analitico
La cardiopatia ischemica è una patologia cardiaca caratterizzata da un inadeguato apporto di sangue e ossigeno a una porzione del miocardio. La causa più comune è la malattia aterosclerotica delle arterie coronarie epicardiche. Oltre che le stenosi “fisse” aterosclerotiche, possono causare ischemia anche le stenosi “dinamiche” delle coronarie: come avviene nello spasmo coronarico. Tuttavia lo sbilanciamento tra domanda metabolica e apporto di ossigeno al miocardio può verificarsi anche con coronarie normali, per un aumento sproporzionato delle richieste, come nelle condizioni di ipertrofia primitiva o secondaria del muscolo cardiaco. Non è infrequente che due o più meccanismi fisiopatologici siano simultaneamente presenti. Le manifestazioni cliniche della cardiopatia ischemica sono varie: arresto cardiaco primario; angina pectoris; infarto miocardico (IM); scompenso cardiaco; aritmie. In particolare le sindromi coronariche acute (SCA) comprendono uno spettro di situazioni patologiche che vanno dall’angina instabile (AI), all’infarto senza sopraslivellamento ST all’IM con sopraslivellamento ST. Negli ultimi trent’anni, proprio per queste poliedriche manifestazioni cliniche, per la variabilità dell’eziopatogenesi e per l’evoluzione rapidissima della terapia, abbiamo assistito ad una continua rivisitazione della definizione e della classificazione delle diverse manifestazioni della cardiopatia ischemica acuta e cronica. Era inoltre necessaria una semplificazione in quanto per anni i cardiologi di tutto il mondo hanno dovuto adeguarsi a classificazioni spesso contrastanti, per mancanza di accordo tra le varie Società Scientifiche internazionali (AHA, ACC, ESC, WHF) e nazionali. La continua evoluzione della definizione dell’IM riveste un ruolo molto importante, non soltanto perché l’IM è una delle maggiori cause di morte e disabilità nel mondo, ma anche perché implica conseguenze psicologiche e sociali nel paziente; ed è un indicatore di prevalenza di malattia nelle statistiche di popolazione degli studi clinici. Prima del 2000 l’approccio diagnostico era prevalentemente basato sulla sintomatologia e sul riscontro di alterazioni all’ECG (tratto ST e onde T e Q). Ora invece si è dato maggior rilievo al referto laboratoristico delle variazioni di concentrazioni ematiche di markers sierici di danno cardiaco (in particolare troponina e CK-MB). Tuttavia i markers hanno un’alta sensibilità intrinseca per il danno cellulare, quindi un’eccellente sensibilità, ma una bassa specificità per la diagnosi di IM. Troviamo infatti alterati livelli di cTn non solo in altre patologie cardiache (miocardite) ma anche in malattie di altri distretti (insufficienza renale). Questo ha portato alla necessità di un attento e ragionato processo decisionale e diagnostico nell’ambito della diagnosi differenziale. Inoltre in accordo con la nuova definizione, pazienti con sintomi ischemici e valori di markers superiori alla soglia di riferimento vengono trattati come affetti da necrosi cardiaca o IM. Per questo molti pazienti con SCA, seguendo i criteri della nuova definizione, sono stati riclassificati da AI a NSTEMI. Ovviamente questa riclassificazione oltre ad aver aumentato il numero di diagnosi di NSTEMI ha portato anche ad un miglioramento della prognosi generale del NSTEMI stesso. Se questo apparente cambiamento dell’epidemiologia dell’IM può essere considerato un limite non va dimenticato, come la nuova definizione, abbia portato indiscutibilmente ad una semplificazione e standardizzazione internazionale della diagnosi di IM. Resta tuttavia il vero limite, ovvero la necessità, in un prossimo futuro, di riadeguare la definizione alle nuove conoscenze scientifiche che la ricerca riserverà in campo cardiovascolare.
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