Riassunto analitico
La malattia di Parkinson è conosciuta da moltissimo tempo: i primi riferimenti ad essa derivano da fonti antichissime come un papiro egiziano, la Bibbia e alcuni scritti di Galeno. Da allora fino ad oggi la malattia è sempre stata presente in tutto il mondo, in entrambi i sessi e al giorno d’oggi, con l’aumentare dell’aspettativa di vita, la sua incidenza tende ad aumentare nei paesi sviluppati. Per questo motivo risultano necessarie tecniche diagnostiche e terapeutiche sempre più aggiornate e migliorate rispetto a quelle esistenti. Nel corso degli anni si è assistito a un netto miglioramento soprattutto dal punto di vista terapeutico. Negli anni ’50 l’unico tipo di terapia utilizzata era quella chirurgica: la talamotomia o pallidotomia, con l’asportazione delle zone cerebrali difettose, quali il talamo o il globo pallido. Questo intervento era altamente rischioso e non sempre andava nel modo sperato. Perciò negli anni seguenti si iniziarono a studiare composti chimici che potessero andare a placare i sintomi della malattia, fino ad arrivare negli anni ’70 all’avvento della Levodopa, il principio attivo ancora oggi più utilizzato per trattare la malattia. Anche questo però presenta effetti collaterali, di cui il più rilevante riguarda le fluttuazioni motorie che si hanno all’interno della giornata dovute al progressivo calo della quantità di farmaco disponibile all’azione. Così negli anni ’90 si è arrivati a una soluzione terapeutica più continua nel tempo per evitare queste oscillazioni nella risposta: la stimolazione cerebrale profonda, DBS. Questa si basa su degli elettrodi impiantati nel cervello, che vanno a stimolare le zone carenti di dopamina, con la stessa intensità per tutto l’arco della giornata. È a questo punto che è intervenuta la ricerca più recente, studiando sempre degli apparecchi per la DBS, ma adattativi, ovvero che si adattano alle esigenze del paziente momento per momento. I primi risultati su scimmie sono stati positivi, il che fa ben sperare per i futuri studi sull’uomo. Questo tipo di terapia però, come tutte le altre finora in uso, è di tipo sintomatico. In questi ultimi anni è stata quindi studiata una terapia più risolutiva, che vada ad agire alla base della malattia per risolverla. Si tratta di una terapia di tipo genico, in cui i geni codificanti per gli enzimi limitanti che sintetizzano dopamina sono introdotti all’interno dell’encefalo tramite un vettore lentivirale. I risultati trovati sono positivi, anche se limitati a un gruppo ristretto di pazienti. Oltre a queste novità di tipo terapeutico, in questi anni sono stati svolti degli studi atti a migliorare anche la diagnosi della malattia, per quanto riguarda le tempistiche di rilevamento. Questa, infatti, viene scoperta una volta che si manifesta clinicamente, nonostante sia costituita da una fase pre-clinica dalla durata anche di diversi anni. Sono stati così scoperti dei fattori che fungono da campanello d’allarme per la malattia: la depressione e i corpi di Lewy intestinali. Alcuni studi hanno infatti determinato che la probabilità di sviluppare il Parkinson dopo la depressione è assai più elevata rispetto ai pazienti non depressi che sviluppano la malattia. Inoltre si è visto che i corpi di Lewy, segni tipici della malattia riscontrabili nell’encefalo tramite esame autoptico, possono svilupparsi anche a livello intestinale ancor prima che la malattia sia conclamata; quindi tramite biopsie intestinali, del colon, è forse possibile determinare la malattia prima ancora che questa si manifesti. Tutto ciò riguarda scoperte molto recenti che necessitano ulteriori studi e prima che possano essere messe in pratica, ma queste novità terapeutiche e diagnostiche, con risultati positivi, fanno ben sperare per il futuro per i pazienti parkinsoniani.
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