Riassunto analitico
Il 7 Aprile 2015 la Corte Europea dei Diritti Umani ha condannato l’Italia per non aver perseguito giudizialmente molti degli autori delle torture perpetrate dalla polizia durante il vertice del G8 di Genova. La tortura è una pratica vietata dal diritto internazionale, anche se purtroppo essa viene clandestinamente posta in essere in molti paesi “civilizzati”, proprio come il nostro. La cultura dei diritti umani (grazie al sostegno di ONG internazionali come Amnesty International) continua a sostenere quel divieto assoluto, morale e giuridico, di utilizzo della tortura anche come strumento legale in mano allo Stato per tutelarci dalle nuove minacce, espressione della più alta e controversa “giustizia degli uomini”. Quello della ri-ammissibilità della tortura è un tema scottante, che è tornato in auge nel XXI secolo, quando la sicurezza collettiva delle società post-moderne ha iniziato a vacillare sotto i colpi inferti dal terrorismo internazionale. Dopo il lungo percorso di civilizzazione dell’umanità, della quale siamo tuttora attori e spettatori, la comunità internazionale sembra aver optato per un’estensione indiscriminata di quelli che sono i diritti umani fondamentali in capo ad ogni essere umano. Tra questi diritti è ad oggi ammissibile parlare di un diritto a non essere torturati, espresso in modo inequivocabile e ineccepibile da parte di ogni singolo Stato che ha aderito alla Convenzione ONU contro la tortura del 1984 (uno degli accordi più ratificati a livello globale). Prima dell’età dei Lumi non vi erano freni alla brutalità con la quale si esprimeva la quaestio. I primi coraggiosi studiosi che hanno deciso di opporsi al supremo potere statale, fino ad allora incontrastato detentore di un hobbesiano diritto di vita e di morte sul cittadino-suddito, hanno espresso tesi articolate per affondare tale pratica, utilizzata soprattutto all’interno delle aule giudiziarie per estorcere confessioni. Oltre ad essere un mezzo di ricerca della verità inutile e controproducente, la tortura è stata combattuta anche sotto il profilo morale, in ossequio alla regola aurea “non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te”. Nonostante le accurate e profonde argomentazioni profuse da autori del calibro di Beccaria o Spee, molti anni dopo, le fondamenta delle conquiste illuminate tremano quando Lhuman e Brugger, dopo gli orrori delle due guerre mondiali, invocano una “tortura di salvezza” capace di metterci al riparo da imprevedibili attentati alle nostre vite e a quelle dei nostri cari. I primi tentativi di reintrodurre una pratica che, nonostante non abbia mai cessato di esistere ricordandoci quanto l’uomo possa essere crudele verso il prossimo, legalmente è stata espulsa dai confini della maggior parte degli Stati del mondo. Gli accordi internazionali, infatti, parlano chiaro: vige il divieto assoluto di tortura, senza eccezioni. Quella della legalizzazione della tortura è una proposta avanzata da alcuni liberal democratici americani, primi fra tutti l’avvocato Dershowitz, che teorizzano una vera e propria licenza di tortura proprio in quelle circostanze eccezionali rappresentate ad esempio dalla bomba a orologeria nascosta dal terrorista, in procinto di esplodere e uccidere molti civili.
Nonostante la dura condanna sotto il profilo morale, alcuni studiosi ritengono che il ricorso alla quaestio sia necessario per poter garantire la sicurezza collettiva che, nell’era della “guerra al terrore”, assume sempre più l’importanza di un’arma contro “il nemico dello Stato”. Ecco dunque che si profilano controverse tesi argomentative sulla legalizzazione della tortura in uno Stato di diritto. Un moral and legal dilemma che riapre un dibattito durato secoli e che incide inevitabilmente sulla tavola dei valori fondamentali delle odierne società democratiche edificate, non dimentichiamolo mai, sul terreno del rispetto dei diritti umani.
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