Riassunto analitico
Il presente lavoro indaga e riflette sulla relazione tra la narrazione e la condizione migratoria. Partendo da un posizionamento pedagogico postcoloniale e utilizzando il paradigma della complessità, vengono analizzate due esperienze in cui persone con background migratorio si raccontano, dando voce ai loro vissuti, contrastando una visione univoca e una narrazione tossica del fenomeno migratorio: viene approfondita la valenza pedagogica e interculturale del progetto Dimmi di Storie Migranti, un concorso letterario italiano nato in Toscana destinato a migranti che sentono il bisogno di raccontare la propria storia, in un contesto non giudicante e non filtrato da una prospettiva etnocentrica occidentale. Tramite il concetto di doppia assenza tratto dal pensiero di Abdelmalek Sayad e la pedagogia militante e intersezionale di bell hooks, analizzo uno dei racconti finalisti vincitori del concorso. Nel quarto e ultimo capitolo viene raccontata l’esperienza di tirocinio legata al progetto Storie, Lingue, Madri, un percorso di narrazione del sé intrapreso da madri con background migratorio frequentanti un corso di alfabetizzazione di italiano di un CPIA. Il progetto coinvolge anche un’unità didattica destinata alla classe prima della scuola Pascoli di Reggio Emilia. Scattando fotografie nel centro città, le madri cercano tracce di sé in un luogo che rappresenta la cultura e l’incontro, e trascorrono momenti di socializzazione costruendo nuovi legami con la città e l’ambiente scolastico dei figli, creando nuove reti di sostegno reciproco. La fotografia diventa un nuovo mezzo con cui esprimere la propria identità quando non è ancora presente la padronanza della lingua del paese di arrivo. Dal focus group condotto con i creatori del progetto Dimmi di Storie Migranti e dalle testimonianze visive e testuali delle madri, emerge l’urgenza di un cambio di prospettiva nei confronti della questione migratoria e la necessità di adottare uno sguardo interculturale e plurale. L’autonarrazione risulta essere un mezzo utile sia al singolo soggetto, come cura di sé e occasione per ridefinire il trauma del viaggio migratorio, che alla collettività, come testimonianza preziosa che non riduce il migrante a una sua definizione stereotipata e generalizzata scritta dall’Occidente. Durante tutto il percorso è presente una metariflessione sull’etica della propria azione educativa sul campo, che termina con un’autoetnografia che aiuta a ricomporre il vissuto della ricerca teorica e pratica.
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