Riassunto analitico
Nella storia della specie umana il lavoro minorile è da sempre esistito. Analizzando il fenomeno, si può notare che il lavoro infantile all’interno del nucleo famigliare ha origini molto antiche. Spesso infatti, succede che gli stessi operai portano in fabbrica i propri figli per controllarli e che proprio una volta cresciuti vengono lentamente inseriti all’interno della fabbrica stessa. Solitamente, il lavoro dovrebbe essere considerato nella sua accezione positiva, ma al tempo stesso lo sforzo fisico che questo comporta ci porta a prendere in considerazione e quindi a distinguere tra lavori leciti e illeciti, determinando una demarcazione piuttosto netta fra “lavoro” e “lavoretti”. Pertanto i lavori lesivi pericolosi o ad alto sfruttamento vengono inseriti nella categoria del “child labour”, a differenza di quelli compatibili con lo sviluppo del bambino che rientrano nella categoria “child work”. Il fenomeno del lavoro minorile deve essere caratterizzato da un’attenta analisi giuridica, al fine di poter essere in grado di valutare il ruolo dell’ordinamento nei confronti dei minori. La disciplina è stata oggetto della legge n. 977 del 1967, in seguito modificata dal D.Lgs. n. 345 del 1999. Tra i principi del Decreto, che vale la pena ricordare emergono che mentre la legge del 1967 collega l’acquisto della capacità giuridica di lavoro solo al compimento dei quindici anni ora la legge condiziona l’acquisto della capacità anche al completamento dell’obbligo scolastico, oltre che al raggiungimento dell’età minima. La regola principale a fondamento della disciplina del lavoro minorile è inoltre la parità di trattamento tra adulto e minore, stabilito dall’articolo 37 della Costituzione. L’articolo 18 della legge n. 977 del 1967, stabilisce poi i limiti massimi di orario differenziati per bambini e adolescenti. La Convenzione n. 138 del 1973 è una delle principali adottate dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro per quanto riguarda l’età minima consentita per poter accedere ai luoghi di lavoro. La necessità di completare e implementare quanto stabilito dalla Convenzione n. 138, ha condotto l’OIL ad adottare nuovi standard tramite la Convenzione n. 182 del 1999. Tale Convenzione, ha contribuito a proibire le forme più intollerabili di sfruttamento del lavoro minorile e a sponsorizzare azioni dirette alla loro eliminazione. Il legislatore, introducendo l’obbligatorietà dell’istruzione, ha voluto contribuire alla frequenza scolastica del minore per un preciso numero di anni al fine di evitare che le famiglie lo espropriassero del suo diritto all’istruzione, introducendolo precocemente nel mondo del lavoro. È proprio la figura dell’apprendistato che permette l’ingresso dei giovani nell’attività produttiva, garantendo loro una formazione professionale ottenuta grazie ad insegnamento teorico e addestramento pratico sul posto di lavoro. Il contratto di apprendistato rientra nelle forme di contratto a tempo indeterminato e favorisce alla formazione e all’occupazione dei giovani. Il fulcro di tale tipologia contrattuale consiste nel fatto che l’imprenditore fornisca all’apprendista assunto alle sue dipendenze una precisa formazione, in base al piano formativo individuale. L’istituto in questione è stato più volte soggetto a modifiche nel corso degli anni. La riforma del 2015 in merito all’apprendistato, invece intende ridare alla scuola un ruolo centrale ed intende elevare i livelli di istruzione, favorendo e incentivando il diritto allo studio e contrastando quello della dispersione scolastica. L’incremento dell’alternanza scuola lavoro è uno degli obiettivi principali della legge n. 107 del 2015. La riforma è stata strutturata in modo da coniugare la formazione effettuata in azienda con l’istruzione e la formazione professionale svolta dalle istituzioni formative che operano nell’ambito dei sistemi regionali di istruzione e formazione.
|