Riassunto analitico
Il presente elaborato realizza un'analisi delle discipline delle clausole sociali, con l'intento di comprendere se esse possano essere strumenti utili alla risoluzione di due grandi problematiche, il dumping salariale e l’elevato tasso di turnover, che affliggono il sistema degli appalti tra privati, e non solo, nel nostro paese. L’intento è quello di individuare nelle clausole sociali uno strumento capace di favorire una maggiore sostenibilità della componente lavoro nelle esternalizzazioni attuate con il ricorso all’appalto. Per quanto concerne il tema de dumping salariale ci si è soffermati su quanto accaduto a seguito dell’abrogazione dell’art. 3, l. n. 1369/1960, e la sua sostituzione con l’art. 29, D.lgs. 276/2003, che ha portato alla cancellazione del principio di parità di trattamento negli appalti privati. È proprio a seguito di questo cambiamento che le clausole sociali di “prima generazione” hanno acquisito maggiore rilievo per quanto concerne la tutela del trattamento economico e normativo dei lavoratori impiegati negli appalti. Da un’analisi della disciplina di queste clausole sociali, rintracciabile all’interno della contrattazione collettiva, emerge chiaramente come nelle finalità e nei meccanismi di tutela esse perseguano un obiettivo molto simile a quello che aveva in precedenza l’art. 3, l. n. 1369/1960. Una volta compresa l’utilità di queste clausole per contrastare il dumping salariale, si è reso necessario indagarne l’efficacia e il rapporto con l’ordinamento interno ed europeo, che sembrano essere i punti critici di tali misure. Inizialmente, è stato approfondito il contrasto tra queste clausole sociali e l’art. 39 Cost., relativo alla libertà sindacale; sarebbe proprio quest’ultimo a rappresentare il principale limite interno alla effettività della tutela promossa da tali clausole. Questo, infatti, riconoscendo all’imprenditore la libertà di decidere autonomamente quale contratto collettivo applicare ai propri dipendenti, rischia di mettere in crisi i meccanismi di tutela delle clausole; tale limite è però facilmente superabile attraverso l’inserimento della previsione della clausola sociale direttamente nel contratto commerciale di appalto. Di conseguenza, la problematica principale è rappresentata dal diritto europeo, nello specifico dall’art. 56 del TFUE in materia di libera prestazione dei servizi, a cui le clausole di equo trattamento sembrano porre dei limiti. La seconda problematica collegata allo strumento dell’appalto è l’elevato tasso di turnover che colpisce i lavoratori coinvolti: infatti, è frequente che il medesimo appalto passi dalle mani di un appaltatore a quelle di un altro, comportando, potenzialmente, la perdita dell’impiego di quanti siano occupati nell’attività del soggetto uscente. A tentare di fornire una tutela a quanti si trovino in simili condizioni sono le clausole sociali di “seconda generazione”; infatti, esse hanno l’obiettivo di fornire continuità occupazionale ai lavoratori coinvolti in un passaggio da un appaltatore uscente ad uno subentrante nel medesimo appalto. Il modus operandi di questa seconda tipologia di clausole sociali varia molto in base al settore in cui concretamente trovano applicazione. È proprio tale qualità a consentire a queste ultime di adeguarsi al contesto in cui di volta in volta si trovano ad operare. Anch’esse, però, si devono scontrare con i limiti posti dall’ordinamento interno ed europeo, al pari di quanto accade per le clausole sociali di “prima generazione”. Nonostante siano emerse alcune criticità, nel complesso le clausole sociali si rivelano degli strumenti potenzialmente ottimi per contrastare le problematicità connesse agli appalti, come dimostrato dal loro utilizzo da parte delle Pubbliche Amministrazioni nell’ambito degli appalti pubblici.
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