Riassunto analitico
Il contratto a tempo determinato ha subito un processo di evoluzione molto intenso il quale ha visto numerose riforme che hanno mostrato come l’approccio del legislatore nei confronti del rapporto a termine sia andato radicalmente trasformandosi nel corso degli anni. Con questo elaborato si intende analizzare le principali modifiche apportate a questo tipo di rapporto con una breve analisi di analogie e differenze con il contratto di somministrazione a tempo determinato. Il legislatore ha sempre mostrato uno sfavore nei confronti del contratto a termine, in quanto la tutela dell’interesse del lavoratore alla stabilità del rapporto appare di regola maggiormente tutelata dal contratto a tempo indeterminato. Secondo l’articolo 2097 del Codice civile, infatti, il contratto di lavoro si reputa a tempo indeterminato, se il termine non risulta dalla specialità del rapporto o da atto scritto. Successivamente è intervenuta le legge 18 aprile 1962, n. 230 con la quale il rapporto a termine era consentito soltanto in ipotesi tassativamente previste. Queste ipotesi si sono ampliate progressivamente, in considerazione delle necessità di flessibilità del mercato del lavoro. Proprio queste ultime hanno condotto alla riforma dell’istituto, attuata con il d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, formalmente attuativo della direttiva n. 1999/70/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo determinato. Il d.lgs. n. 368 del 2001 è stato parzialmente modificato dall’art. 1 della legge 24 dicembre 2007, n. 247, di attuazione del Protocollo 23 luglio 2007 su previdenza, lavoro e welfare, la quale ribadisce il principio che “il contratto di lavoro subordinato è stipulato di regola a tempo indeterminato” ed inoltre introduce che la successione di contratti a termine con lo stesso lavoratore, per lo svolgimento di mansioni equivalenti, non può più protrarsi per un periodo illimitato di tempo, ma deve rispettare un limite massimo di 36 mesi di rapporto di lavoro. È successivamente con la legge n. 92/2012 che vengono introdotte importanti novità che incidono in maniera rilevante sul contratto a tempo determinato. La modifica più interessante riguarda sicuramente l’introduzione della possibilità di stipulare il primo rapporto a tempo determinato, di durata non superiore a dodici mesi, senza che sia richiesta la sussistenza delle ragioni di carattere tecnico produttivo od organizzativo di cui all’art. 1 comma 1 d.lgs. n. 368 del 2001. La riforma ha inoltre aumentato il periodo di prosecuzione consentita del rapporto di lavoro a termine successivamente alla scadenza, portando gli originari termini di venti o trenta giorni, a trenta e cinquanta giorni, a seconda che la durata iniziale del contratto sia inferiore o superiore a sei mesi. In tale ipotesi tuttavia, è previsto l’obbligo per il datore di lavoro di una comunicazione preventiva al Centro per l’impiego. Un’altra importante novità è l’aumento significativo degli intervalli obbligatori da rispettare in caso di successive assunzioni a termine portandoli da dieci a sessanta giorni per le fattispecie contrattuali con durata inferiore a sei mesi e da venti a novanta giorni per le fattispecie contrattuali con durata superiore a sei mesi. Ultima e più recente riforma riguarda il D.L 20 marzo 2014 n. 34, cosiddetto Jobs Act, convertito nella legge n. 78/2014 che ha apportato importanti e sostanziali modifiche alla disciplina del contratto a tempo determinato. La prima sostanziale novità concerne la giustificazione del termine che può mancare in tutti i contratti a tempo determinato. Le proroghe sono ammesse, con il consenso del lavoratore, fino ad un numero massimo di cinque; il numero complessivo di contratti attivati da ciascun datore di lavoro non può eccedere il limite del 20% del numero dei lavoratori a tempo indeterminato.
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