Riassunto analitico
Da diversi anni, anche in Italia sono apparse sulla scena del diritto, le neuroscienze, vale a dire quel complesso eterogeneo di discipline scientifiche che indaga sulle connessioni neuronali dei comportamenti umani. Tale ingresso ha trascinato con sé non poche problematiche, scaturite dalle nuove conoscenze ottenute attraverso gli studi sul funzionamento dei meccanismi cerebrali: in particolare, i risultati delle indagini neuroscientifiche porterebbero a negare la sussistenza del libero arbitrio a favore di un approccio deterministico, il che avrebbe delle conseguenze di non poco conto su istituti e concetti giuridici fondati storicamente sull’idea della libertà del volere.
La diffusione delle recenti scoperte delle neuroscienze cognitive e comportamentali ha generato un vivace dibattito che ha coinvolto una molteplicità di saperi, quali il diritto, la filosofia, la scienza, l’etica e la sociologia. Sul tema sono, pertanto, sorti approcci tra di loro differenti. Un primo approccio c.d. rifondativo, nega la volontà umana (e, dunque, il libero arbitrio), in quanto ritiene che la condotta deviante dell’individuo sarebbe determinata solo dall’elemento bio-psicologico. Motivo per cui, viene proposta non tanto un’abolizione del diritto penale, quanto piuttosto la sua rifondazione su basi alternative al principio di colpevolezza tradizionalmente inteso, in favore di un modello special-preventivo. Un secondo approccio c.d. moderato, invece, ha riscosso maggior consenso nella letteratura giuridica, in ragione alle conclusioni giunte: le neuroscienze non sarebbero ancora capaci di fornire risoluzioni decisive in merito all’esistenza del libero arbitrio, il che scongiura una potenziale messa in dubbio delle categorie basilari del diritto penale. Semmai, è possibile riconoscere il contributo neuroscientifico nella soluzione di problemi collegati all’accertamento di specifiche condizioni mentali, la cui presenza e le cui caratteristiche possono incidere a vario titolo sull’applicazione degli istituti tipici del diritto penale. In tale prospettiva, le tecniche neuroscientifiche si rivelerebbero utili per constatare la veridicità delle dichiarazioni rese nel corso del procedimento; potrebbero, altresì, garantire validi contributi nelle valutazioni relative alla pericolosità sociale. Tuttavia, la sede nella quale le tecniche in questione offrono un apporto concreto è quella della diagnosi del disturbo mentale, corrispondente al primo livello del giudizio di imputabilità, in quanto rinforzerebbero le perizie psichiatriche, conferendo loro un maggiore grado di oggettività.
La fine del dialogo non pare all’orizzonte, anzi esso è alimentato da una letteratura sempre più vasta e da una casistica giurisprudenziale in costante aumento. Tuttavia, per ora, nel panorama interno l’impatto delle neuroscienze è ancora circoscritto al giudizio di imputabilità, nel quale si rileva comunque un atteggiamento prudente, se non addirittura diffidente, da parte della giurisprudenza, in ragione dei dubbi concernenti l’affidabilità delle discipline in esame.
Lo scopo precipuo di questo elaborato è, pertanto, vagliare i livelli di interazione tra neuroscienze e diritto penale sostanziale, ricostruendo il complesso dibattito sulle ricadute delle evidenze offerte dalle tecniche di neuro imaging e della genetica comportamentale in ambito penalistico (in specie, sul giudizio di imputabilità). Si proverà, inoltre, a comprendere se sia concepibile la preoccupazione di una possibile rifondazione dell’intero sistema penale su nuove basi costituite dalle acquisizioni, per l’appunto, di matrice neuroscientifica o se, invece, i progressi scientifici non incideranno in alcun modo sull’ordinamento giuridico, o ancora, se sia prospettabile una convivenza e stretta collaborazione tra Scienza e Diritto.
|