Riassunto analitico
Il controverso rapporto tra diritto e scienza emerge con particolare evidenza nell’ambito del processo penale, dove l’aspirazione alla certezza della ricostruzione giudiziaria favorisce il ricorso a sofisticate metodiche scientifiche. Questa intersezione tra scienza e processo si sostanzia nella prova scientifica, consistente in un’operazione probatoria che richiede il ricorso alle conoscenze tecnico-scientifiche di un esperto. In considerazione delle peculiarità che connotano questo mezzo probatorio, il procedimento di formazione della prova penale deve diversamente strutturarsi nelle varie fasi di ammissione, assunzione e valutazione della prova. In assenza di indicazioni codicistiche, giurisprudenza e dottrina hanno tentato di individuare le corrette modalità di ammissione processuale della prova scientifica. Ispirandosi all’esperienza statunitense, la giurisprudenza italiana ha elaborato alcuni parametri di controllo per orientare l’attività del giudice e per impedire l’accesso di conoscenze scientifiche inaffidabili in sede di giudizio. Consapevole dell’impossibilità di procedere ad una passiva applicazione di tali parametri nel contesto processuale, la dottrina ha ritenuto che la valutazione di affidabilità scientifica, condotta alle stregua dei criteri giurisprudenziali, debba essere inquadrata nelle categorie processuali codicistiche. Ne è derivato un vivace dibattito dottrinale volto a verificare se gli strumenti tecnico-scientifici applicati nella ricostruzione dei fatti costituiscano prove atipiche non disciplinate dalla legge o peculiari modalità di espletamento di prove tipiche. Ai fini dell’assunzione della prova scientifica, deve essere realizzata un’attività di adattamento delle modalità acquisitive tradizionali. Dall’applicazione dell’art. 189 c.p.p. al disposto normativo di cui all’art. 501 c.p.p., che prevede l’estensione della disciplina dell’assunzione della prova testimoniale alla prova esperta, si configurerebbe un fenomeno di atipicità interna relativamente alla prova tecnica, che potrebbe giustificare il ricorso a modelli assuntivi differenti da quelli legislativamente tipizzati. In generale, occorrerebbe incrementare il contraddittorio nella formazione della prova scientifica e valorizzare la partecipazione e l’apporto degli esperti, opportunamente selezionati e monitorati nel loro operato. Nello svolgimento dell’attività valutativa, il giudice deve evitare di aderire acriticamente alle rappresentazioni scientifiche offerte dagli esperti e deve evitare di valutare le risultanze ottenute in forza del suo discrezionale convincimento. Per scongiurare entrambi i pericoli, il giudice dovrebbe assumere la funzione di gatekeeper, controllando con approccio critico e consapevole l’affidabilità e correttezza del mezzo probatorio acquisito in giudizio. Dall’applicazione delle tecniche neuroscientifiche in ambito processuale, ultima e complessa evoluzione del rapporto tra scienza e diritto, si è sviluppata una nuova forma di prova scientifica, la prova neuroscientifica, che risulta caratterizzata da vistose peculiarità e differenze rispetto alla tipologia probatoria alla quale appartiene. I contesti applicativi delle neuroscienze al processo possono ricondursi alla verifica dell’imputabilità e alla valutazione dell’attendibilità del dichiarante, non potendosi identificare, allo stato attuale, ulteriori ambiti di utilizzo delle neuroscienze nel processo penale. Nonostante le riserve critiche sollevate in sede dottrinale ed incentrate sulla possibile violazione della libertà morale della persona sottoposta a tali accertamenti, le recenti aperture della giurisprudenza italiana all’utilizzo delle tecniche neuroscientifiche hanno dimostrato una particolare sensibilità nel cogliere le potenzialità future che il loro impiego processuale potrà garantire.
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