Riassunto analitico
La presente trattazione si propone di affrontare, in modo conciso ma analitico, il controverso tema della potestà coercitiva facente capo alla Chiesa. Prendendo le mosse da quella che può apparire come una contraddizione di fondo, si è cercato di ripercorrerne gli sviluppi storici e le applicazioni concrete. La domanda di fondo, che costituisce il leitmotiv di tutto l’elaborato, rappresentando anche la ragione che mi ha spinto ad affrontare lo studio del presente argomento, può essere sintetizzata in questi termini: perché la Chiesa possiede un diritto penale? Se il lettore si ferma a riflettere, capirà bene che il quesito appare tutt’altro che scontato o banale. La Chiesa, difatti, rappresenta da secoli l’emblema del perdono e della misericordia; quando l’essere umano si immagina la Chiesa le fa sicuramente indossare i panni della benevolenza e della carità. Eppure, è sufficiente sfogliare il Codice di diritto canonico per rendersi conto che Essa, oltre all’insegnamento evangelico, ha fatto proprio anche un sofisticato apparato di diritto penale. Il nostro compito è stato, per l’appunto, quello di cercare di capirne i fondamenti e le giustificazioni, ricostruendo anche le posizioni di coloro che non intendevano accettare la presenza di un tale apparato coercitivo. Per cercare di raggiungere il nostro obbiettivo siamo partiti da lontano esaminando, nel primo capitolo, i principali passi neotestamentari che rappresenterebbero, a detta della dottrina maggioritaria, il fondamento della potestà punitiva ecclesiale. Dopodiché abbiamo rivolto la nostra attenzione al Concilio Vaticano I, nel corso del quale si sono svolti accesi dibattiti sulla necessità di codificare il diritto canonico, e, con esso anche il diritto penale. Il prodotto principale di questo Concilio è stato, infatti, il Codex Iuris Canonici, promulgato da Papa Benedetto XV con la Costituzione apostolica Providentissima Mater Ecclesia il 27 maggio 1917, il quale, dopo una serie di esperienze di codificazioni private, ha rappresentato la prima codificazione in senso tecnico e ufficiale della Chiesa, risolvendo la situazione di confusione delle fonti e incertezza del diritto lamentata dalla dottrina fino a quel momento. Quello che, però, ci ha interessato maggiormente è stata la constatazione che, nonostante i grandi dibattiti a riguardo e le numerose resistenze, in quel primo Codice la Chiesa ha affermato senza mezzi termini l’esistenza del suo potere coercitivo, mettendolo per la prima volta per iscritto al canone 2214 §1. A questo punto è stata svolta un’analisi esegetica dei principali canoni contenuti nel libro V (De Delictis et Poenis), che ha occupato per intero il secondo capitolo, nel quale si è cercato di comprenderne i fondamenti teologici ed ecclesiologici. Si è dimostrato, in particolare, come l’affermazione di principio contenuta nel citato canone 2214 (“Nativum et proprium Ecclesiae ius est, independens a qualibet humana auctoritate, coercendi delinquentes sibi subditos poenis tum spiritualibus tum etiam temporalibus”) rappresenti la sintesi delle posizioni della dottrina del Ius Publicum Ecclesiasticum, che in quegli anni raccoglieva molto seguito soprattutto tra i Pontefici. Nonostante le lotte affrontate dalla Chiesa per farsi riconoscere come titolare di una facoltà punitiva, il suo diritto penale cadeva presto in disuso ed emergevano voci che ne chiedevano la modifica o addirittura l’abolizione. Questo sarà il tema di partenza della riflessione da noi condotta nel terzo capitolo, dove si passeranno in rassegna le principali innovazioni del Concilio Vaticano II che porterà alla luce il nuovo Codice, promulgato nel 1983, il quale, nonostante tutto non farà venir meno l’apparato penalistico. Nel quarto ed ultimo capitolo abbiamo condotto un rapido esame sulla figura di Monsignor Eugenio Corecco e di come il suo “atto contra legem” si inserisca in tutto questo dibattito.
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