Riassunto analitico
L’elaborato, in generale, si preoccupa di trattare, l’ancora più che attuale, problematica della privatizzazione delle fonti di diritto penale, in questo caso specifico, dal punto di vista della normativa in ambito di sicurezza e salute del lavoro. Dopo una breve introduzione sull’evoluzione della normativa sulla sicurezza e salute del lavoro in Italia, trattando i punti salienti della legislazione italiana precedente agli anni novanta, del D.lgs. n. 626/1994 in materia di sicurezza sul lavoro (in attuazione delle direttive di armonizzazione di derivazione comunitaria; la valutazione del rischio), del D.lgs. n. 231/2001 relativo alla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche (criterio oggettivo e soggettivo di imputazione; i modelli organizzativi; la colpa d’organizzazione; i sistemi di gestione e di controllo), del D.lgs. n. 81/2008 recante il Testo Unico sulla salute e sicurezza sul lavoro (valutazione globale e documentazione di tutti i rischi e nuovi rischi; il nuovo documento unico di valutazione dei rischi; la delega di funzioni ex articolo 16; i modelli organizzativi ex articolo 30), viene analizzato il fulcro della trattazione. Esaminando, dapprima, la trasformazione della normativa italiana in ambito penale del lavoro, è possibile svolgere una critica valutativa circa le conseguenze che la privatizzazione delle fonti penali, avvenuta anche a livello generale penale, ha apportato alla materia di cui si sta trattando in questo scritto. Se in un contesto legislativo precedente al D.lgs. n.626/1994, si poteva vedere l’intervento normativo del solo legislatore, con l’avvento delle “pratiche di armonizzazione” degli ordinamenti giuridici, di derivazione comunitaria, il legislatore italiano, in attuazione delle direttive UE, ha dato il via all’introduzione di modelli organizzativi aziendali in materia di prevenzione antinfortunistica, di natura squisitamente privata. Dal momento che il legislatore del 2008, e così anche i suo predecessori, non hanno fornito indicazioni sostanziali circa il contenuto preventivo-cautelare, si dovrà valutare, all’insegna dei principi di eguaglianza e democrazia, se questi modelli di autoregolamentazione, ricalchino le previsioni legislativamente previste e, quindi, perseguano i dettati minimi richiesti dal legislatore. Si è, di conseguenza, in presenza di due ordinamenti, uno di derivazione pubblica/legislativa e l’altro eminentemente privato; i due ambiti si rapportano fra loro, con modalità differenti, a seconda della imperatività di uno o dell’altro. Si avranno, perciò modelli gerarchici, competitivi o cooperativi. Il datore di lavoro, per contro, dovrà predisporre, in concreto, il programma di sicurezza più idoneo all’attività lavorativa, tenendo conto dei rischi specifici; tutto ciò rende necessaria la previsione di «percorsi uniformi e delle procedure standardizzate per l’organizzazione della sicurezza sui luoghi di lavoro». Questi due fattori obbligano il datore di lavoro ad un continuo aggiornamento e adattamento delle misure prevenzionali, in funzione dei mutamenti tecnologici ed organizzativi, che l’avanzamento della tecnica man mano apporta all’ambito produttivo (si è verificato il mutamento del contenuto e dello scopo del dovere prevenzionale, riduzione del rischio e il principio precauzionale). Questa autonormazione necessita di un vaglio di idoneità preventiva? Una riforma incompiuta? Per comprendere al meglio lo scetticismo della giurisprudenza e dottrina, su alcuni punti di tale autodisciplina, occorre trattare dell’argomento apportando gli esempi dell’esperienza normativa di taluni stati europei ed internazionali.
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