Riassunto analitico
Il presente elaborato analizza il fenomeno dell’occupazione delle fabbriche, verificatosi tra il 1919 e il 1920 in Italia, durante il periodo noto anche come “biennio rosso”. In particolare, si propone un’analisi storica dell’occupazione delle fabbriche nel suo complesso – a partire da quelle che ne furono le premesse, fino ai motivi che determinarono il fallimento del movimento operaio – e degli strumenti predisposti dall’ordinamento italiano al fine di farvi fronte, in un’ottica comparatistica tra il codice penale del 1889 e quello del 1930. Fra le maggiori problematiche, emerse nell’ambito della prevenzione e della repressione delle occupazioni, vanno evidenziate l’inadeguatezza del paradigma democratico-liberale, incapace di far fronte alle necessità e alle richieste di una società in continuo divenire, quale quella del primo dopo-guerra, nonché la presenza di lacune normative, non essendo presente all’interno del codice Zanardelli una fattispecie che incriminasse in maniera diretta le condotte poste in essere dagli occupanti. Il nucleo fondamentale della trattazione è rappresentato dall’analisi dell’articolo 508, introdotto con il nuovo codice penale fascista del 1930, il quale per la prima volta incrimina espressamente l’invasione e l’occupazione delle aziende agricole o industriali. L’articolo, intitolato “Arbitraria invasione e occupazione di aziende agricole o industriali. Sabotaggio”, è stato inserito all’interno del Libro II, Titolo VIII, Capo I tra i “delitti contro l’economia pubblica”; tale collocazione risulta particolarmente significativa, in quanto sintomatica della maggiore importanza assunta dal mondo della produzione a seguito della riconversione industriale post-bellica: è proprio l’idea che la potenza della Nazione debba fondarsi su un apparato produttivo solido e stabile a giustificare la collocazione della norma di cui trattasi tra i delitti che ledono l’ordine economico.
Ci si trova dinnanzi ad una nuova fattispecie la cui applicazione ai casi concreti risulta, però, tutt’altro che agevole, a causa della previsione di un elemento soggettivo che restringe in maniera significativa l’ambito di applicazione della norma, consistente nella volontà di “impedire o turbare il normale svolgimento del lavoro”. La comprensione dei motivi che hanno determinato la previsione di tale dolo specifico da parte del legislatore dell’epoca non può prescindere da un inquadramento che tenga conto del contesto storico all’interno del quale l’articolo 508 c.p. si inserisce: la creazione dell’ordinamento corporativo e le sue leggi istitutive, nonché dei “reati sindacali” previsti dal nuovo codice penale, sono strumenti dei quali il regime si serve al fine di depotenziare sensibilmente il ruolo e l’attività svolti dai sindacati nell’ambito della lotta di classe, la quale viene vista come dannosa per l’apparato produttivo del paese. È questo il quadro di riferimento a partire dal quale è opportuno interrogarsi sulla portata dell’articolo 508 c.p. e formulare le relative ipotesi circa le ragioni della sua indeterminatezza e dei suoi limiti applicativi.
In altre parole, è opportuno chiedersi se le scelte del legislatore del 1930, circa la fattispecie di cui trattasi, dipendano dall’instaurazione di un regime che priva il singolo delle sue libertà fondamentali, rendendo superflua la previsione di un articolo “perfettamente funzionante”; oppure, se la suddetta volontà legislativa sia legata alla consapevolezza che la repressione di un fenomeno come quello dell’occupazione delle fabbriche dipenda, piuttosto che dalla previsione una singola fattispecie incriminatrice, dall’intero sistema corporativo e dall’assorbimento al suo interno dei sindacati, cioè di quegli organismi sociali che più di tutti avevano favorito l’azione di classe.
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