Riassunto analitico
Accostarsi al tema del lavoro carcerario vuol dire percorrere l’accidentato cammino che partendo dal suo utilizzo quale mero strumento di afflizione insito nella stessa pena detentiva ne ha visto nel tempo, seppur lentamente e faticosamente, rivoluzionare il significato fino a farlo diventare a tutti gli effetti, o almeno nelle sue applicazioni più riuscite, un formidabile strumento di recupero sociale del condannato in un’ottica ampliata di rieducazione e di positivo reinserimento nella società. Parallela a quella del lavoro carcerario scorre la tematica delle condizioni detentive, prius logico di una riflessione che vuole fare emergere quali siano le condizioni necessarie per assicurare la possibilità di riscattarsi da una visione sociale negativa generatrice di stigma sociale e di perenne esclusione che conduce inevitabilmente alla reiterazione della condotta deviante, quando non ad una progressione della gravità dei reati. Per molti individui in età lavorativa, provenienti da realtà dove la disoccupazione è endemica, come lo sono la povertà e l’ignoranza – così spesso terreno di coltura della criminalità organizzata – un’esistenza dove per “campare” non è indispensabile e scontato dovere rubare, rapinare o spacciare droga, passa necessariamente attraverso l’attivazione di un’occupazione lavorativa, la sola chiave per aprire un nuovo capitolo della loro vita. Consegue la necessità di costruire una società inclusiva, dotata di programmi idonei al coinvolgimento delle persone recluse e spesso private della loro dignità. L’alterità, propria delle persone riconosciute ree di un reato e per questo motivo giudicate, deve abbandonare il terreno dell’anormalità ed essere riconosciuta quale caratteristica soggettiva dell’individuo, per tale motivo non idonea a determinarne un isolamento, certamente foriero di conseguenze immaginabili.
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