Riassunto analitico
Il concetto di pericolosità sociale ha assunto nel corso dei secoli, una rilevanza centrale, non solo nella riflessione giuridica, ma anche criminologica e psichiatrica, sia per ciò che riguarda la tutela della sicurezza collettiva, e sia per ciò che concerne i limiti entro i quali si può intervenire sui singoli individui considerati socialmente pericolosi. La definizione di pericolosità sociale fa riferimento a quelle persone le quali, per caratteristiche psicofisiche, comportamentali o sociali, potrebbero risultare potenzialmente dannose per l’ordine pubblico e per la sicurezza. Per tale motivo, la gestione del soggetto pericoloso è divenuta centrale per le istituzioni prima sanitarie e poi giuridiche. Quella della pericolosità sociale e della malattia mentale in genere, è una storia che attraversa i secoli; diversi sono stati gli approcci filosofici e le risposte istituzionali, giuridiche e scientifiche che l’hanno accompagnata nel tempo. Nel contesto italiano, lo svilupparsi e l’evolversi di questa disciplina, è stato influenzato dalle varie correnti di pensiero susseguitesi a livello europeo. Dapprima vi fu la Scuola Classica, fondata su principi illuministici, la quale riteneva che il reato fosse una scelta consapevole dell’individuo e che non poteva essere scissa da questo; ecco perché il trattamento del soggetto pericoloso era necessariamente legato e limitato alla punizione per il crimine commesso. Con l’avvento della Scuola Positiva invece si assiste ad un forte cambio di rotta, verso una prospettiva scientifica e deterministica: la criminalità e la pericolosità, vengono associate a cause biologiche, psicologiche e sociali. La devianza comincia ad essere considerata non come una libera scelta, ma come un risultato di fattori biologici, culturali, ambientali…che sfuggono al controllo del soggetto . Il trattamento, del soggetto pericoloso e del malato mentale, necessita quindi di un approccio più complesso che integri interventi medici, sociali e penali. Nel corso del tempo nel nostro paese vi furono vari interventi normativi che cambiarono del tutto l’approccio a tale disciplina: tali riforme influenzarono interi settori come quello sanitario e giuridico, e rivoluzionarono totalmente l’approccio nei confronti dei soggetti interessati, dapprima emarginati e reclusi in strutture escludenti, isolati dalla società, poi considerati come pazienti e soggetti fragili da curare e reinserire nel contesto sociale. Anche le strutture stesse subirono un’evoluzione lungo i secoli. Dapprima vi furono gli istituti manicomiali, nati tra il XVIII e il XIX secolo, i quali avevano l’obbiettivo di internare ed isolare le persone affette da malattie mentali. L’obbiettivo principale, quindi, non era la cura del malato, ma quello dell’isolamento del deviato dal resto della società; con il tempo, infatti, i manicomi si sono trasformati sempre più in luoghi di reclusione forzata nei quali i malati mentali venivano abbandonati e dove le possibilità di guarire o di essere reinseriti nel contesto sociale erano pressoché inesistenti. Uno dei momenti cruciali sul tema fu quello dell’emanazione della legge Giolitti nel 1904 ; questa regolamentò l’internamento dei malati mentali nei manicomi e soprattutto dei soggetti ritenuti pericolosi. In tal modo il concetto di pericolosità sociale arrivò ad assumere un’importanza fondamentale: era la base, il punto di partenza, la giustificazione alla privazione della libertà e all’internamento manicomiale, il tutto sempre con l’obbiettivo di preservare l’ordine pubblico e non di curare il malato. Con il passare degli anni, divenne sempre più evidente l’inadeguatezza del sistema manicomiale. Numerose furono le denunce riguardanti le condizioni disumane e degradanti alle quali erano sottoposti giornalmente i pazienti. Lo scandalo legato al mondo degli istituti manicomiali accese sul tema un forte interesse.
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